venerdì 19 ottobre 2007

Le due voragini che ostacolano lo sviluppo


Debito pubblico e previdenza
di
Chiara Battistoni

Che si tratti di televisione, radio o carta stampata, non c’è giorno in cui non si incappi in un peana infinito di richieste; tutti a chiedere fondi (intendiamoci, per ragioni sacrosante) come se le disponibilità di cassa del paese fossero infinite, un pozzo di San Patrizio a cui attingere senza remore e alla bisogna. Tutti a chiedere, in apparenza senza rendersi conto che con il debito pubblico stratosferico di cui godiamo, il nostro Paese è condannato a un declino inesorabile. Come possiamo pensare di dedicare risorse per qualsiasi altro progetto quando sulle nostre teste gravano debiti stratosferici che si portano appresso interessi passivi altrettanto stellari (poco meno di 68 miliardi di Euro all’anno per un debito che ammonta a circa 1.576 miliardi di Euro!) ?
Il Commissario Ue agli Affari Monetari ed Economici, Joaquin Almunia, da questo punto di vista, è stato chiarissimo: il debito pubblico dell’Italia è insostenibile per un Paese che voglia crescere; senza un ridimensionamento radicale delle spese non c’è possibilità di invertire la tendenza. Scagliarsi contro i costi della politica serve a poco: pur con un drastico ridimensionamento del numero di parlamentari (così come proposto dalla devoluzione, poi bocciata dal referendum del 2006), per esempio, risparmieremmo sì e no l’equivalente di un giorno e mezzo di interessi passivi sul nostro debito.

Chiaro che di fronte a questi ordini di grandezza il problema è altrove; come ha osservato Giancarlo Pagliarini in occasione del convegno “Federalismo Fiscale, analisi e ipotesi di lavoro”(promosso da Assoedilizia e Università degli Studi di Milano), il primo “buco” è il debito pubblico, ma il secondo è proprio la previdenza, una voragine che nasce dalla differenza tra contributi sociali incassati dagli enti previdenziali e spese per la previdenza (esclusa l’assistenza), circa 42 miliardi di Euro. Se questo è il quadro – e i numeri non mentono – le direzioni da seguire sono ben altre da quelle che si sono imboccate finora; per agire sui due buchi ci vogliono riforme radicali e coraggiose; ridurre il debito pubblico, facendo crescere il Pil (non vendendo il patrimonio pubblico!) e snellire la previdenza.
Misure straordinarie di tagli e tassazione possono avere un effetto temporaneo e di breve periodo, ma non sono in grado di riequilibrare i conti in dissesto di uno stato. Come ha osservato Vito Tanzi in “Questioni di tasse – La lezione dell’Argentina” (Università Bocconi Editore, 2007) “L’equilibrio nei conti dello stato può essere ristabilito esclusivamente affrontando un fondamentale ridimensionamento per via legislativa dell’intervento dei poteri pubblici nell’economia, ossia nel ruolo (determinato dalla legge o dalla Costituzione) dello Stato, adeguando in tal modo il livello di spesa pubblica al livello normale e sostenibile della tassazione. L’equilibrio raggiunto in tal modo fa sì che sul lungo periodo il gettito ordinario dello Stato sia in linea con il livello di spesa pubblica.” (pag. 41) La ricetta c’è, ma è una ricetta difficile da far digerire, con un prezzo elettorale e popolare molto alto, adatta a classi politiche e dirigenti davvero capaci di pensare al futuro del Paese, così audaci da accettare di non essere rielette.

Anche per il secondo “buco” le ricette esistono, accompagnate ormai da una casistica ben documentata. Se le soluzioni possono essere molteplici (tutte, però, concentrate sulla valorizzazione dell’autonomia personale e della responsabilità individuale), unico è il problema: il modello sociale europeo è in crisi, eroso dalla concorrenza che trasforma i modelli economici e dall’invecchiamento della popolazione che costringe a rivedere le dinamiche di lavoro e di assistenza. Come ha osservato Wilfred Prewo (“Oltre lo Stato Assistenziale” Rubbettino, Leonardo Facco, 2005), i sistemi previdenziali di impostazione bismarkiana (per esempio la Germania) traggono il proprio sostentamento finanziario dall’occupazione e, attraverso i “contributi sociali” sui salari a carico dei datori di lavoro, diventano parte integrante del costo del lavoro. Quelli di impostazione “beveridgiana (come la Danimarca) sono invece finanziati dalle entrate statali e, pur non sommandosi direttamente al costo (indiretto) del lavoro, finiscono per generare lo stesso effetto. In un caso come nell’altro, il costo del lavoro, specialmente quello indiretto, cresce con il risultato di rendere il Paese sempre meno competitivo facendo crescere il numero dei disoccupati che vive di sussidi o di proventi da attività “in nero”. In questo modo lo stato assistenziale si dissangua sottraendo risorse per gli investimenti necessari a crescere. Stando ai dati Ocse, dal 1980 a oggi, nei principali Paesi europei, le spese destinate all’assistenza sociale superano gli investimenti con il risultato di impoverire tutti, chi vive oggi e chi vivrà domani. Osserva Prewo “Il destino dello Stato assistenziale rischia di imitare quello degli stati socialisti, altrettanto corrotti sotto l’aspetto morale ed esausti sotto quello economico, alla fine degli anni Ottanta. In assenza di una riforma, esso imploderà, proprio come è avvenuto nell’Europa orientale nel 1989. Il vero atteggiamento antisociale consiste nell’opporsi alla sua riforma.”

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